
25 aprile: perché una democrazia ancora incompleta
Sono passati 80 anni dal giorno della Liberazione e il fantasma del fascismo continua a manifestarsi in tutto questo tempo senza interruzione. Oggi addirittura siamo governati da persone che non nascondono il loro apprezzamento per quel ventennio o lo mascherano con espedienti meschini.
Quel fantasma ha sempre perseguitato la mia coscienza di antifascista a partire dai vaghi ricordi di quando avevo pochissimi anni e avevo visto la guerra, l’occupazione nazista, i volti truci delle SS e dei repubblichini di Salò. Quando da adulto nel 1960 ho vissuto i “fatti di Genova” del governo Tambroni e, da giornalista a Milano negli Anni settanta, quando i fascisti malmenavano chi all’edicola di piazza San Babila comprava l’Unità o Il Manifesto, mentre la polizia “guardava” dall’altra parte. Non a caso il questore della città era Marcello Guida, ex direttore fascista della colonia di Ventotene in cui erano detenuti i “politici”.
E poi c’è il lungo elenco di attentati fascisti organizzati da “forze occulte”. È possibile che passati tanti anni lo Stato nato dalla Resistenza non sia mai riuscito a far chiarezza? Che le ombre dei fantasmi aleggino ancora nei palazzi del potere?
Non a caso in questi giorni la proprietaria di un panificio di Ascoli Piceno, che aveva esposto in vetrina la scritta “25 aprile buono come il pane, bello come l’antifascismo”, è stata intimorita prima dai poliziotti, poi dai vigili urbani. Tanto per la cronaca, il sindaco della città appartiene a Fratelli d’Italia. Il giorno dopo le sono arrivate offese e minacce anonime. E il questore, rappresentante della Repubblica nata dalla Resistenza cosa ha fatto?
Sono tante le domande che ci facciamo da anni senza avere una risposta. Su questi 80 anni sono stati scritti tanti libri, articoli, fatti tanti discorsi ai comizi, conferenze, ma un approfondimento veramente convincente non c’è mai stato, perché non si è mai arrivati alle radici della questione, ai giorni successivi a quel 25 aprile.
Vale il detto “Dio non paga il sabato”: significa che certi avvenimenti che non vengono presi in considerazione nell’immediato, possono manifestarsi nel futuro e prolungarsi nei tempi.
E quel detto è diventato il titolo di un libro sulla defascistizzazione della provincia di Livorno. L’autore è un giovane laureato in Storia, Giovanni Brunetti, che con ostinata perseveranza ha realizzato una ricerca storica di grande rilievo indagando sulle istituzioni, la società, la politica a partire dal 25 luglio del ’43 sino al ‘47, anno in cui nel maggio De Gasperi espulse dal governo comunisti e socialisti.
In questa interessante opera viene raccontato, nei minimi particolari e documenti alla mano, il funzionamento degli organi dello Stato e di quelli periferici nella epurazione dei fascisti compromessi in atti contro le persone; nell’aver compiuto atrocità durante la repubblica di Salò e tanti altri reati legati alla dittatura mussoliniana. Un altro compito delle istituzioni era quello di eliminare ogni traccia o eredità riconducibili al fascismo come fare “pulizia” negli uffici pubblici, nella legislazione, nei programmi scolastici, tra i libri di testo, eccetera.
La scelta di Livorno è un campione valido per l’intera nazione soprattutto nelle province centro-settentrionali dove la guerra non era finita l’8 settembre del 1943: dovunque era in funzione lo stesso apparato di epurazione con simili procedure e stessi risultati.
Già, i risultati. Di questi conosciamo bene il fallimento di cui ci siamo resi conto in questi ottant’anni a partire dalla nascita del Msi, partito costituito da personaggi provenienti dal fascismo e dalla repubblica di Salò. Molti amnistiati da Togliatti, altri assolti da una magistratura compiacente formatasi durante il regime.
Se si pensa che Gaetano Azzariti, presidente del tribunale della razza durante il fascismo, nominato ministro della Giustizia nel governo Badoglio e allontanato dopo le proteste dei partiti del CLN, ce lo siamo ritrovato nel 1957 come presidente della Corte costituzionale. Fu nominato dal Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi – considerato democristiano di sinistra – ma che a sua volta durante il primo governo Mussolini era stato sottosegretario del ministero dell’Industria.
Un altro esempio: il generale Graziani capo delle milizie fasciste della RSI che faceva fucilare i renitenti alla leva, e che ancora prima, durante la guerra d’Etiopia aveva fatto bombardare la popolazione civile con i gas asfissianti e commesso tanti altri reati conto l’umanità, ha potuto vivere tranquillo. Arrestato dagli americani a fine conflitto e consegnato alla giustizia italiana, fu condannato da un tribunale militare a 19 anni di reclusione per “collaborazionismo”, ma tra condoni e indulti si fece solo sei mesi di carcere. Lo storico Angelo Del Boca lo definì «il più sanguinario assassino del colonialismo italiano».
Il Comune di Affile, non lontano da Roma, gli ha dedicato un mausoleo inaugurato nel 2012. Il conto di 127mila eurofu pagato dalla Regione Lazio quando il neofascista Francesco Storace ne era il presidente (2000- 2005).
Su denunzia dell’ANPI il sindaco di destra fu condannato a pochi mesi di detenzione nei primi due gradi del processo, ma venne assolto dalla Cassazione. Il mausoleo è rimasto e sulla facciata campeggiano le parole “patria e onore”.

L’elenco di questi alti “papaveri” del fascismo, potrebbe continuare a lungo. Gli epurati si contano sulle dita. Ma se la storia di costoro era ben nota, era rimasta sconosciuta quella dei personaggi minori macchiatisi ugualmente di gravi reati commessi durante la dittatura e l’occupazione nazifascista.
Li ha fatti “resuscitare” Giovanni Brunetti col suo importante lavoro di inchiesta prendendo in esame la storia di decine e decine di personaggi in camicia nera che avevano commesso reati di ogni genere durante il regime e tra il ’43 e il ’45. Persone appartenenti a tutti i livelli della società, dallo stradino al vigile urbano, dal poliziotto al questore, dagli impiegati pubblici ai medici e agli infermieri.

I nomi di costoro e i provvedimenti a loro carico presi dallo Stato, sono stati elencati tutti in uno schema presentato nelle ultime pagine del libro. Per esempio: Oscar Nini, capo operaio nella Todt (un kapò) condannato nel ’45 a 12 anni, fu assolto in Cassazione l’anno dopo; le assoluzioni furono tante. Le condanne più frequenti tra medici e impiegati pubblici, andavano da un minimo di 3 mesi a 6 di sospensione dal lavoro. È da sottolineare che molti magistrati che aderirono alla repubblica di Salò, a fine guerra vennero reintegrati nella magistratura e alcuni di loro ebbero l’occasione di partecipare agli apparati di epurazione.
Non si conosce la fine dei membri livornesi della guardia nazionale fascista che all’arrivo degli alleati fuggirono a Nord dove parteciparono ai rastrellamenti dei partigiani e ai plotoni di esecuzione.
Il governo De Gasperi, liberatosi delle sinistre, cancellò l’apparato di epurazione motivando che lo Stato per funzionare aveva bisogno di continuità. Nella polizia vennero cacciati i seimila ex partigiani assunti dopo la Liberazione; reintegrò tutti i dipendenti della milizia fascista, i questori, i prefetti e i magistrati.
E se poi aggiungiamo le ingerenze della Chiesa di Pio XII, l’Italia divenne una Repubblica “clerico fascista”.