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Parole inafferrabili che ri/animano

Tempo di lettura: 3 minuti

E …come hai trovato la casa a cui ritornare?”

La migrazione, scelta o forzata, individuale, famigliare o di massa, temporanea o permanente conduce la persona o il gruppo che la realizza, ogni volta che si avvicina, ad essere “estranea” al luogo, alla comunità, alla storia in cui sta arrivando.

“Estraneo/a” è una parola pulita che, malgrado abbia come sinonimi anche forestiero/a, straniero/a, alieno/a, ha una connotazione neutra che descrive una distanza, una diversità. Insomma descrive la mancanza di relazione, di conoscenza, di connessione con il luogo, la società, le persone.

Ho scelto la parola “estraneo/a” anche per la sua ambivalenza. “Estranea” è la persona che si trova oltre la linea immaginaria che divide la comunità del luogo e viceversa “estranea” è la comunità rispetto alla persona.

Si è “estranei” perché la linea immaginaria non è permeabile o non si sposta.

Quando “estraneo” diventa  “altro”

La parola “estraneo/a” mi è stata suggerita da Alessandro Gazzoli che con il suo libro “Estranei” ha raccontato una “realtà fuori dal comune” che riguarda gli immigrati extra-comunitari di prima o seconda generazione. Gazzoli è scrittore e professore di italiano in un Centro di Educazione per Adulti frequentato prevalentemente da immigrati.

Ma essere “estranei” ha diversa densità o meglio solidità. Chi è al di là della linea immaginaria può sentirsi “altro” da chi è lì o semplicemente sentirsi “spaesato”.

Quando questa linea viene disegnata da disconnessioni in cui le nostre relazioni sono condizionate da stereotipi o pregiudizi o addirittura strutture (il labirinto delle regole a cui deve sottostare un migrante comunitario o extra-comunitario ne è uno dei tanti esempi) allora diventiamo “altro”.

C’è una parola inglese che lo riconosce: “othering”. E’ il processo di rendere un’altra persona o un gruppo “altro”, percependo come “estraneo” e con un “valore inferiore” la stessa persona o il gruppo.

Questo avviene perché definiamo “categorie” semplificanti (bianco o nero, cristiano o musulmano, uomo o donna, giovane o vecchio ecc.) che ci permettono di velocizzare il nostro processo decisionale, con il primo cervello, quello emotivo, la relazione con l’altra persona. Primo passo verso il conflitto.

Squarciare il velo

Io ho scoperto l’“othering” con un semplice gioco di ruolo.

Mi è stato attribuito il ruolo di Ana, una studentessa diciassettenne, rom, bosniaca, di religione islamica che vive nei sobborghi degradati di una grande città italiana in una casa popolare.

Il Gioco “Un passo avanti” ha come scopo di giungere un traguardo di una linea immaginaria rispondendo a delle domande. Vince chi arriva per primo. Le domande che mi sono state poste erano per esempio:

“La lingua che si parla a scuola, negli uffici, in ospedale, è la stessa lingua che parli a casa?

Tu e la tua famiglia avete sempre abbastanza soldi per i vostri bisogni, e le cose di cui avete necessità?

Non hai mai dovuto nascondere qualcosa della tua storia (personale o familiare) per poter essere accettato dai compagni di classe o dalla società? Ti senti capito e accettato?

Vai a fare delle visite mediche e dentistiche con regolarità, anche quando non stai male?

Puoi invitare i tuoi amici a cena a casa tua o per dormire da te?”

Bene chi risponde positivamente va avanti, chi risponde negativamente no… Io sono rimasta a metà del percorso…

Perché? Molto semplice, ho rivissuto i pregiudizi e gli stereotipi che condizionano un certo senso di identità.

Veneta, anzi di Rovigo, che vive in Lombardia, anzi a Milano, e poi Milanese a Bologna e poi tecnologa femmina in un mondo di tecnologi maschi, e poi giovane in un mondo di cinquantenni e poi vecchia in un mondo di trentenni, laureata in una comunità di persone con “solo” la scuola dell’obbligo, economista tra ingegneri ecc.

Ho capito cosa è “othering”. I miei stereotipi e pregiudizi hanno bloccato Ana a metà strada. E probabilmente anche Paola. Non ha gli stessi diritti… proprio come da “dove” proviene la sua famiglia.

Uno squarcio nel velo! I miei pregiudizi e stereotipi danno più identità agli “altri” di quanta identità do a me stessa. E’ “normale” rimanere fluidi. E’ un privilegio.

Poi c’è l’essere nata o l’essere “localizzata” nella mia “casa”, zona di comfort che mi rassicura e che ha dei bellissimi confini geografici, etnici, religiosi, culturali…

La mia “casa” ha delle linee immaginarie di confine come quella delle mappe che descrivono dei territori con province, regioni. Ma è questa la “casa” dove voglio ritornare?

La tecnologia sta estendendo il mio corpo e la mia coscienza. Ha senso costruire “muri” e “linee” per definire “casa” o ha più senso realizzare pratiche di libertà umana consapevole per “appartenere” a un luogo e ad una comunità di persone rispettose e attente al progredire dell’umanità?

Ho trovato illuminante e abbastanza “scomodo” questo video del filosofo Paul B. Preciado che affronta il tema della “identità” nel mondo di oggi.
https://www.youtube.com/watch?v=DTNx0dUHEUA

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