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Scene da un tavolino

Tempo di lettura: 2 minuti

Un bicchiere appoggiato su un tavolo di legno.
Una natura morta di Morandi.
Nessun ombra disegnata dalla luce.
È sera, il vicolo è silenzioso e poco illuminato.
Il bistrot è poco affollato, tranquillo, quasi assopito.
Lei sceglie sempre lo stesso tavolino.
Un po’ in disparte e strategicamente al riparo dalle folate di vento fredde che a volte soffiano in quell’inverno bipolare.

La temperatura quella sera è insolitamente mite, l’anno da poco iniziato.
Il gelo dei giorni precedenti si è spento da qualche parte, chissà dove e perché.
Forse il legno che accoglie quella pausa, ne ha ancora memoria.
Qualche schianto lo attraversa e quei solchi sembrano quasi delle bocche socchiuse bisbiglianti.
Quante chiacchiere ascoltate tra gli aperitivi avrebbero potuto uscire da quelle crepe di materia vissuta.
Per fortuna tacevano.

Lei è decisamente stanca, ma serena.
Una ciocca di capelli le cela per metà gli occhi.
Si morde le labbra al ritmo di ogni sorso del suo Margarita.
È il sale che le rimane sulla bocca…
le piace sentirne il sapore, quando aggredisce ed esalta la sua sete, bruciando in modo delicato oltre il colore del suo rossetto.

Ogni volta gli stessi gesti.
Stringe delicatamente tra l’indice e il pollice l’esile collo del suo bicchiere e fa scorrere le dita su di esso, su e giù, per poi aprire la mano per afferrarne delicatamente la coppa e porgerla ad un nuovo e desideratissimo sorso.
È una carezza dolce , rituale.
È un modo per essere fisicamente in quel momento, ma mentalmente catapultarsi in un’altra dimensione,
dove non ci sono turbamenti e domande.
Dove non ci sono rancori ed echi di cose accadute.

Stasera, lei, brinda e dimentica un rifiuto.
Un desiderio rimasto tale, inesaudito.
Non esagera mai.
È lenta nell’ assaporare.
Si regala tempo.
Si regala una pacata leggerezza, senza mai troppa euforia, mantenendosi perfettamente lucida.

La sua mente sogna l’ estate, il suo calore, il sole che non vuole andarsene a dormire presto.
È assorta, ma non c’ è malinconia.
Lo sguardo è perso nel piccolo oceano alcolico racchiuso in quel bicchiere.
Ad un certo punto il tavolo emette una vibrazione.
Un rumore la distrae appena.
Una sedia al suo tavolino è stata spostata per accogliere una presenza.
Poi una voce.
“Passavo di qui, ti ho vista, c’ho ripensato“.
Lei alza gli occhi stupita, è visibilmente imbarazzata.
Arrossisce, guarda altrove per non incrociare lo sguardo del suo interlocutore improvvisato.
Deglutisce cercando al contempo di tirar fuori un sorriso dal suo cilindro magico di espressioni.
Poi ,con voce calma:
“Mi fa piacere… Ma non ti chiederò il motivo.
Non ho voglia di indagare prepotentemente sulle tue ragioni.
Non ti conosco.
Ma posso partire da una semplice domanda… come stai?”

Sul volto di lui esplode un’ espressione indecisa.
Gli occhi gli si stringono come se dovesse mirare un bersaglio.
Impugna il suo calice di vino bianco per portarlo alla bocca, poi ci ripensa e lo ripone delicatamente sul tavolo.
“In che senso come sto?!
Ora?
In questo momento?
Oppure in generale?
Potrei parlare molto o essere brevissimo.”
E lei:
“Decidi tu.
Decidi tu come rispondere.

Si comprende molto di una persona capendo quali priorità dà nel definire il suo stato.
È una domanda che tutti fanno spesso frettolosamente per convenzione, per obbedire alle buone maniere…
Ma quanto ascoltiamo davvero ciò che ci viene risposto?
Tu parla.
Come stai è come sei.”

Un minuto di silenzio.
Un sorso per preparare la bocca a scandire parole.
Un sorso lei, per esser pronta ad ascoltarle.

Le nervature del legno di quel tavolino dilatate anch’esse nel percepire ogni sfumatura.
L’ accoglienza, senza alcun giudizio.

Come stai.
Chi sei.
Vedremo.

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